Nella pittura napoletana di oggi l’arte di Montarsolo, così distaccata dagli incastri come dalle evasioni di quelli che vogliono rinnovare dal fondo le assise della tradizione locale, si volge ancora alla natura, ma frantumandola e poi ricomponendola secondo un ordine diverso, che è quello dettato dalla fantasia, secondo la sintassi che esige il suo lirismo. E’ il riflesso, il simbolo del suo mondo, quello che inventa immagini nello specchio, e sono frantumi colorati di un caleidoscopio, che in una luce di acquario esistono ormai, per un momento, secondo leggi e linee incorruttibili. Sono innumerevoli varianti di un unico motivo di luce che si sposta sugli oggetti, cavandone o un bagliore trattenuto o un risentimento di luce o unva vaga e magica efflorescenza, indimenticabili.
Carlo Barbieri, Napoli, 1962
Parlare di Montarsolo è un’altra occasione per affermare che a Napoli sono cambiate molte cose anche in pittura. Una volta o l’altra è una storia da scrivere. La tradizione folcloristica o di conservatorismo culturale si è sbloccata. Napoli, per esempio, non risentì nulla né del rinnovamento futurista né di altri muovi corsi di questo mezzo secolo di arte italiana. I grossi miti della pittura meridionale dell’Ottocento e dei primi decenni del nostro secolo chiusero ogni scambio di idee e di esperienze pittoriche in un giro di regionalismi, avvalendosi anche di pigrizie o di rispetti locali. Ora da una decina d’anni la situazione si è rotta e nella vita artistica partenopea si constata un nuovo fervore, un clima acceso. I fatti nudi della pittura napoletana si determinano ora per sorgente spontanea e non per imposizione formalistica. Montarsolo è in questa funzione di punta e bisogna riconoscergli il merito di non insistere su polemiche preconcette. Esse derivano semmai per via indiretta dalla positività pittorica e lirica del suo lavoro, entro il quale si avverte ogni volta un più intimo accento di trasfigurazione. Nelle opere più recenti si può vedere appunto come il pittore, in una descrizione intessuta anche di un sentimento malinconico, riesca man mano ad allargare i termini del suo colloquio con la natura: prima con una constatazione oggettiva di esistenza, e poi via via liberando sugli oggetti e sulle luci una vibrazione più intensa e sottile della fantasia interiore. E da sottolineare anche la ricchezza cromatica e matura di queste invenzioni: un fitto tessuto di lamelle, di tocchi di colore dorato o argentato, di itinerari luminosi, che rendono fantastica la soluzione ed inimitabile. E bisogna ricordare che l’artista è autodidatta, anzi uno dei pochissimi autodidatti che Napoli può contare fra quelli di successo dato che a Napoli e nel meridione vige l’idea che si è o si sarà artisti solo in seguito a normali corsi accademici (…)
Marco Valsecchi, Milano, 1963
Carlo Montarsolo è stato segnalato da me segnalato per le pagine speciali del Bolaffi perché è l’artista napoletano di maggior rigore e coscienza sia per quanto riguarda la lezione dell’avanguardia storica sia per lo sviluppo della sua pittura limpida costruita in una sapiente tessitura di memorie e presenze, di notazioni sensibili e di astrazioni. Il suo “naturalismo astratto”, si è oggi arricchito dei nuovi simboli di comunicazione di massa, mai rinunciando alla presa di possesso di una realtà sempre in mutamento, misteriosa nei suoi fenomeni sempre da decifrare. La costante della pittura di questo uomo del Sud, è una poetica pazienza, la ricerca continua del “perché delle cose”, da fuori e dentro, della materia come della luce, della forma come del movimento, dell’oggettività come del simbolo. Non poteva non conquistarmi questa sua continuità e felicità di sviluppo, nel quadro di un’arte non sperimentale, ma che sperimenta nel linguaggio della pittura.
Marcello Venturoli, Roma, 1970
Post-impressionismo, fauvismo, cubismo, astrattismo, informale. Il percorso di Carlo Montarsolo lungo la linea maestra dell’arte contemporanea è conseguente. Così conseguente che l’osservatore non avvertirà né salti né improvvise mutazioni di tendenze, ma un coerente succedersi di esperienze, strettamente legate le une alle altre da uno spirito, o per meglio dire da una professione, di assorta meditazione. L’ultimo Pirandello, con la sua raffinata e minuziosa vivisezione dell’oggetto e l’espressionismo astratto di nordica radice, sono i due punti di partenza della pittura di Montarsolo. Fondamentale per il pittore è l’incontro con la realtà oggettiva che egli trasfigura in una meditata serie di metamorfosi suggerite e sostenute da una memoria sempre poetica.
Lorenza Trucchi, Roma, 1970
Una qualità ben particolare di Montarsolo è la lievitazione degli oggetti nell’ombra, anzi il culto pittorico dell’ombra che rimanda al seicento napoletano: la roccia lavica e gli oggetti antichi di Montarsolo si rivelano con una brina di gocce di luce che non è tanto dissimile da quella che imperla il rame e i pesci e il pane di Giuseppe Reco. Ed è qui che Montarsolo indica la modernità della tradizione napoletana e fa la sua sottile ma corrosiva polemica pittorica nei confronti del tanto discusso Ottocento napoletano. Che poi egli cerchi di essere italiano dentro la modernità europea del cubismo, e lo sia spesso con la grazia e la felicità della vita quotidiana, mi sembra una ragione solida, storica ed esistenziale, una ragione in più per dipingere in giorni non facili per la pittura.
Dario Micacchi, Roma, 1970
Carlo Montarsolo, pittore napoletano che ha conquistato un posto eminente nell’arte italiana ma che, per raggiungere questo invidiabile traguardo, ha dovuto abbandonare la propria città, ritorna tra noi con una mostra in cui presenta due fasi assai interessanti della propria operazione pittorica. Montarsolo, tra i rappresentanti più seguiti e più significativi dell’astrazione naturalistica. Il Naturalismo astratto di Montarsolo è molto diverso da quello di un Ilario Rossi. Montarsolo non solo costruisce una propria semantica (e quindi si pone all’avanguardia sul piano linguistico) ma si pone anche dei problemi morali. Se l’ingerenza degli slogan ricavati dalla vita di ogni giorno vuol mostrare che il lessico pittorico si rinnova e si adegua alle mutate esigenze dell’uomo di oggi, gli interrogativi e gli esclamativi vogliono simbolisticamente configurarsi nell’alternarsi degli stati d’animo di una società preda dell’angoscia. Una grossa mostra, dunque, anche se Montarsolo ha presentato solo le opere composte tra il ’58 e il ’65. La rassegna si dipana dalle prime tele ancora figurative (in cui fanno già capolino i primi segni dell’operazione successiva) fino a presentare composizioni recenti, in cui il noto artista si esprime col proprio linguaggio di oggi.
Gino Grassi, Napoli, 1974
Rivediamo perciò le diverse fasi per le quali è passata la sua crescita. Intorno al 1955 è tra i giovani che avvertono il fascino dell’informale, che ha dato libertà all’espressione immediata e quasi istintiva dell’immagine, legandola però alle emozioni del mondo naturale. Ed è qui che ritroviamo il pittore napoletano. Di solito, il pittore napoletano è sgargiante, estroverso, naturalistico. Ma esiste anche un filone assai raro della pittura napoletana, che mi pare sia giusto dire di mente fredda; e sta al di fuori di quell’esplosione variopinta, così come sta al di fuori degli aggiornamenti fatti sulle riviste d’avanguardia. Pittori, quindi, che badano alle situazioni sempre mutevoli della cultura, ma non disposti a barattare la propria autenticità. Montarsolo è pittore di questo tipo. Quindi quel suo modo di essere informale, non fu uno scatenamento del caos; ma piuttosto un riflettere nella pittura la densità emotiva, senza lasciarla travalicare. Un’emotività controllata sempre dalla volontà di ritrovare al termine dell’operazione un’immagine. Fu il periodo delle lave vesuviane, in cui Montarsolo raggiunse una sua originalità. Dentro le lave il pittore impresse delle figure, profili di cose care, di oggetti quotidiani, di foglie, che si distinguono proprio come fossero travolti dalla lava e dagli spessori infuocati emergono per taluni lati, mentre per altri stanno immersi nel magma ribollente. Anche il colore corrispondeva alla situazione: un colore denso, pieno, stratificato e tenuto sui toni bruni: lava e lapillo. Poi sopraggiunse il periodo delle chiarificazioni, non soltanto del colore, che diventa chiaro, dai riflessi di ambra; ma chiarificazione anche dell’immagine. Cioè il controllo mentale, che in Montarsolo è sempre vigile, prende il sopravvento, e la verifica che si diceva prima, avviene ora anche sulle forme. E’ il momento in cui i suoi quadri sembrano mosaici di piccole tessere ordinate per larghe spazialità chiare su cui aggettano forme scure. Era inevitabile che, da questo punto, insorgesse una verifica del procedimento cubista. E’ il periodo nuovo, intorno al 1970. Se le forme sembrano frantumarsi in tanti agglomerati di piccole geometrie, in effetti Montarsolo raggiunge un ordine più esteso, una struttura più ampia dell’intero quadro. E su questa base, sta svolgendo un discorso non solo coerente di soluzioni culturali, ma anche per finezza di sensibilità pittorica, con aperture improvvise di colori timbrati. Verrebbe voglia di paragonarli, questi colori improvvisi, alle ginestre, che non sai come riescono a fiorire sopra gli strati duri delle lave.
Marco Valsecchi, Milano, 1975
Nella presente situazione artistica, ricca, sì, di talenti e di proposte, ma anche molto contraddittoria e difficile (nel senso almeno di una pericolosa tendenza da parte di certa critica ad azzerare tutte le esperienze precedenti in omaggio all’ultima) un pittore come Montarsolo, che portò a Napoli in anni oscuri l’esperienza del cubismo analitico, e che intorno al 1960 era già artista nazionale, ha dovuto sostenere una dura battaglia per restare se stesso continuando a dipingere sulla tela con colori e pennelli, senza rinunciare, d’altra parte, alla grande lezione dell’avanguardia storica appresa e vissuta nelle sue inconfondibili lave vesuviane, nelle tessiture di luci e forme riflesse sugli elementi di natura, nelle poetiche e misteriose ricognizioni dell’archeologia (dove è di casa, fra Pompei ed Ercolano), che culminarono col grande dipinto “Il tempio sommerso” (1967). A questa tela fu assegnato il 1° premio alla Rassegna del Mezzogiorno nel Palazzo Reale di Napoli, da una giuria presieduta da G.C. Argan.
Marcello Venturoli, Napoli, 1987
La lezione cubista, di un cubismo analitico, si decifra sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta come riferimento di fondo, come prospettiva culturale piuttosto che come emergenza interiore. Montarsolo non varcò mai la soglia dell’astrazione e non si allineò pedissequamente ai percorsi più sperimentali dell’arte italiana, tenendosi sostanzialmente fuori tanto dalle ricerche puramente informali e dai vicini fermenti napoletani, quanto dalla compagine meridionale del movimento nucleare e neodadaista. Apertura e chiusura, partenza e ritorno, sotto il profilo artistico e psicologico, nell’opera di Montarsolo sono sempre compresenti. Pur distaccandosi nei fatti da una tradizione localistica, l’artista non ha mai reciso il legame con la sua terra di formazione. Lo si intuisce anche dalle scelte tematiche, come le immagini vesuviane o i paesaggi marini, che sono tra i capitoli più intensi della sua produzione.
Giorgio Agnisola, Roma, 2014
Ciò che colpisce, ripercorrendo il lungo percorso pittorico di Carlo Montarsolo, forse perciò configurandone intimamente nel tempo la personalità artistica, mi sembra proprio una costantemente ricorrente sua fedeltà al colore, in quanto medium qualificante espressivamente l’immagine. Lo si può riscontrare già in suoi dipinti figurativi degli anni Quaranta, poco più che ventenne. E ricorre attraverso l’esperienza di sintesi formale materica fra Sessanta e Settanta, e poi nelle sue proposte di racconto che si snodano negli Ottanta-Novanta, e in altre di sintesi figurativa particolareggiata nei 2000. Fedeltà alla pittura in quanto tale, vale a dire alla medialità espressiva del colore, di volta in volta manipolato in un assai partecipato piacere sensitivo-evocativo nella costruzione, sostanzialmente infatti cromatica, dell’immagine dipinta. Dunque attraverso i diversi modi della sua organizzazione fra racconto e sintesi strutturale, fra decantazione emotiva e invece ingaggio come in un rapporto ravvicinato. E ne viene complessivamente un percorso immaginativo pittorico la cui continuità, entro la diversità di occasioni, consiste appunto in un feeling materico-cromatico profondo, sostanziosamente sensitivo ed evocativo, sviluppato attraverso situazioni di narratività figurativa oppure di sintesi strutturale oltre la figurazione. Mi sembra sia appunto la felice, intima, “costante” del lungo far pittura di Montarsolo, in un svariato racconto di immagini e di forme variamente dipanate nel tempo, che proprio appunto nella particolare, costante, disponibilità manipolatoria del colore, ha il proprio nesso profondo.
Enrico Crispolti, Roma, 2018